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Italiani a Tianjin

Maestro Chang Dsu Yao - Spiralis Mirabilis Magazine - Arti marziali e cultura tradizionale cinese e alla cultura tradizionale cinese

Pagina pubblicata in data 18 aprile 2025
Aggiornata il 19 aprile 2025

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"La città di Tien-tsin era una bellissima città e lo è ancora dove c’è. Le concessioni europee vaste tanto da formare da sole una cittadona delle nostre, sono fatte a bellissime vie ampie alberate, tutte palazzi, ville e villini circondati da giardini. Il clima vi è più mite che a Pechino, doveva essere una residenza splendida. Ora sono in piedi ancora molte case, ma moltissime sono state incendiate, molte abbattute completamente. [...] La città cinese che è immensa, contenendo prima della guerra circa un milione di abitanti, è ridotta anch’essa in uno stato deplorevole. Intieri quartieri sono ridotti ad un cumulo di macerie. Attorno alle concessioni per un raggio di quasi un chilometro non esistono che macerie."
Così scrive Giuseppe Messerotti Benvenuti in una delle lettere che compongono il volume "Giuseppe Messerotti Benvenuti - Un italiano nella Cina dei boxer. Fotografie e lettere (1900 - 1901)" edito nel 2000.

"Cancel culture". Una locuzione che negli ultimi anni è balzata alle cronache del dibattito pubblico. Nel 2020 Noam Chomsky vi si è contrapposto. L’ha descritta come la prosecuzione - con i mezzi offerti dalla modernità - delle metodologie con cui le istituzioni mediatiche tradizionalmente modellano l’opinione di massa. La peculiarità, rispetto alla manipolazione dell’informazione, nasce però dal fatto che l’ostracismo della "cancel culture" proverrebbe "dal basso", da iniziative volontarie assunte da gruppi di persone socialmente o politicamente impegnate, anziché da azioni imputabili ai governi.

Al di là di chi mette in atto la "cancel culture" viviamo un momento storico in cui opere letterarie del passato, anche recente, vengono "rieditate" per non ferire la sensibilità di alcuni "gruppi", alle volte definiti più semplicemente "minoranze". Ne è un esempio la riedizione edulcorata dei libri di Roal Dahl o la decisione di eliminare "Via col Vento" dai palinsesti. Tanto che si è pensato di doppiare nuovamente la pellicola edulcorando certe parole pronunciate all’interno del film.

In Occidente il dibattito sui monumenti con un passato "pesante" si apre ciclicamente. Il dilemma è sempre lo stesso: rimuovere o non rimuovere quelle tracce funeste? Quale azione è più efficace?

Monumenti che sono stati investiti dal vento della "cancel culture", divenendo oggetto di rimozione, demolizione e/o vandalizzazione.

In Italia l’esempio più noto è quello della statua di Indro Montanelli, vandalizzata più di una volta nel corso degli anni.

Il 7 giugno del 2020 gli attivisti di Bristol hanno tolto dal piedistallo la statua del mercante di schiavi Edward Colston – reo del trasporto di centomila persone nella tratta atlantica – e l’hanno fatta rotolare come un birillo nel fiume. Erano anni che con petizioni, picchetti e performance creative se ne chiedeva la rimozione, ma il governo della città era stato sordo a ogni richiesta.

Un consiglio stimolante a riguardo arrivò dallo street artist inglese Banksy che propose di sostituire la statua del mercante di schiavi con la "rappresentazione" della sua deposizione.

Bansky suggerì, infatti, di rimettere la statua al suo posto, farle passare un cavo attorno e contornarla di manifestanti che la tirano giù... una composizione statuaria dinamica che non rimuove la storia, ma la sovverte.

Nulla di diverso da quanto propose Gianni Rodari alla vigilia delle Olimpiadi di Roma del 1960. In quell’occasione scrisse per il quotidiano Paese Sera un pezzo dal titolo "Poscritto per il Foro" sulle scritte al Foro Italico che inneggiavano al fascismo.

"Si vogliono lasciare le scritte mussoliniane? Va bene. Ma siano adeguatamente completate. Lo spazio, sui bianchi marmi del Foro Italico, non manca. Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere le aggiunte."

Per Rodari le aggiunte dovevano riguardare il dolore che il fascismo aveva inflitto. Un dolore che andava ricordato per non ripetere più un obbrobrio del genere. Completare, quindi, per non soccombere.

È legittimo mettere in discussione ciò che i monumenti rappresentano, ma distruggere senza proporre nuovi modelli non porta nessun beneficio, è un meccanismo sterile.

Se da un lato l’intento di mostrare maggior accortezza per determinate sensibilità si può tradurre in una tutela di quest’ultime, uno scellerato revisionismo storico rischia di minare parte del nostro passato culturale.

Cancellare i "cattivi maestri" non offre nessuna utilità. La loro presenza al contrario deve servire a renderci migliori di chi ci ha preceduto su questa Terra.

La famosa lettera "A Letter on Justice and Open Debate" apparsa il 7 luglio 2020 sul sito della prestigiosa rivista americana Harper’s magazine è stata letta come un appello contro la "cancel culture" (anche se nella lettera non si cita direttamente la "cancel culture").

Un appello a non dimenticare, ma a comprendere e fare tesoro delle esperienze passate, anche di quelle negative.

MALATI D’ASIA

Nella città cinese di 天津 tiānjīn, una della quattro municipalità della Cina (直轄市 zhíxiáshì, città di vaste dimensioni che godono di uno status amministrativo pari a quello delle province), è presente il quartiere italiano, caratterizzato da edifici costruiti negli anni Venti e Trenta del Novecento che sono stati oggetto di accurati interventi di restauro conservativo che il Governo cinese ha intrapreso negli ultimi anni.

Concessione italiana di Tianjin - Spiralis Mirabilis Magazine - Arti marziali e cultura tradizionale cinese e alla cultura tradizionale cinese
Piazza Marco Polo, Ex Piazza Regina Elena a Tianjin

Un recupero accurato che ha prodotto esiti che in Italia sarebbero oggi giudicati imbarazzanti proprio agli occhi della "cancel culture": la torre del Palazzo dello sport, infatti, evidenzia tuttora, ai quattro angoli, enormi fasci littori.

Simbolo del quartiere è l’attuale piazza dedicata a Marco Polo (dedicata prima alla regina Elena). La piazza ospita il monumento alla Vittoria costituito da una colonna sulla cui sommità è collocata una statua rappresentate la Vittoria alata.
Questo monumento rappresentava l’orgoglio nazionale e la commemorazione delle conquiste coloniali italiane.

In una Nazione, la Cina, che non ha esitato a "cancellare" le testimonianze "culturali" di ciò che non era gradito al potere, è davvero particolare poter vedere tutt’oggi conservato un monumento che rappresenta il giogo degli stranieri sul popolo cinese.

La piazza e il quartiere sono la testimonianza dei sogni imperialistici del regno d’Italia. La testimonianza del desiderio dell’Italia di elevarsi al medesimo status delle altre nazioni colonialiste europee.

L’Italia, come avvenne in Africa, arrivò "tardi" nella corsa alle concessioni imperiali che violarono la sovranità nazionale della Cina a partire dal 1842. Nonostante questo "ritardo" l’Italia non rinunciò ai propri sogni imperialistici. Non gli impedì di vivere la propria esperienza di "Nazione coloniale".

Ricordare oggi le vicende della concessione italiana di Tianjin permette non solo di scoprire un capitolo poco conosciuto della storia delle relazioni fra l’Italia e la Cina, ma permette anche di comprendere le motivazioni che porteranno durante il Novecento il popolo cinese a un senso di "rivincita" nei confronti dell’Occidente che contribuì in modo sostanziale alla creazione dell’immagine di una Cina "malato dell’Asia". Un senso di rivincita che continua tutt’oggi nella politica del presidente 習近平 xí jìnpíng e che ha fortemente contribuito a creare la moderna potenza economica cinese.

Di questo "contributo" dell’Occidente possiamo trovarne un riflesso nelle parole di Giuseppe Mazzini, che nel 1871, pochi anni dopo la firma con la Cina del "Trattato di commercio e di navigazione", avvenuta il 26 ottobre 1866 e che segnò l’inizio effettivo delle relazioni diplomatiche con la Cina, affermò: "L’Europa preme sull’Asia e la invade: nelle sue varie regioni, con la conquista britannica dell’India, con la lenta avanzata della Russia a nord, con le concessioni periodicamente strappate alla Cina, con i movimenti americani sulle Montagne Rocciose, con le colonizzazioni, con il contrabbando. Una volta il primo e più potente colonizzatore del mondo, l’Italia rimarrà l’ultimo in questo splendido movimento?" (Giuseppe Mazzini 1861–1891 Scritti editi e inediti, 16: 128).

Concessione italiana di Tianjin - Spiralis Mirabilis Magazine - Arti marziali e cultura tradizionale cinese e alla cultura tradizionale cinese
La concessione italiana oggi

È interessante osservare, nonostante queste sue parole, come Mazzini fu elogiato anni dopo dall’importante pensatore cinese 梁啟超 liáng qǐchāo (1873-1929).

Nel 1901, quando Liang Qichao fu esiliato in Giappone dopo il fallimento del movimento delle "Riforme dei cento giorni" del 1898, scrisse il saggio 《義大利建國三傑傳》 yìdàlì jiànguó sānjié chuán, in cui celebra Mazzini come uno dei tre eroi italiani che il popolo cinese dovrebbe emulare.

Nella prefazione Liang insiste sulle somiglianze tra l’Italia e la Cina: "nella mia vita ho pensato, sognato e adorato un’infinità di eroi patriottici; eppure solo l’Italia presenta alcuni aspetti simili alla Cina di oggi, soprattutto se si considera la sua condizione prima del raggiungimento dell’unificazione nazionale".

Per comprendere come l’Italia guardasse alla Cina durante il periodo coloniale, è sufficiente guardare uno dei tanti cine giornale dell’Istituto Luce degli anni Venti o Trenta.

La voce fuori campo del giornale "Luce B0697" del 19/06/1935 nel descrivere la concessione di Tianjin ricorre a parole "barbari indigeni", "esotismo". Parole che la "cancel culture" richiederebbe di essere "rieditate". Atto che ci impedirebbe però di capire la visione di allora dei nostri connazionali e il perché degli errori da loro commessi.

La voce fuori campo continua a descrivere le immagini video e si sofferma sul fatto che molti negozi nelle loro insegne presentino anche i caratteri cinesi (come se fosse una particolare attenzione nei confronti della popolazione locale il bilinguismo).

In questo articolo non voglio entrare nel dibattito su ciò che è giusto o è sbagliato. La storia è storia. Affrontare qualcosa di estremamente complesso in modo semplice non è possibile. Una riflessione sul tema del colonialismo richiede molto più spazio e tempo che un articolo offre. Le scelte degli uomini e delle donne che furono protagonisti durante i 46 anni della concessione italiana di Tianjin, furono "figlie del loro tempo". Cancellarle, ignorarle, dimenticarle significa non comprendere i perché dell’oggi. A noi sta solo comprenderle nel modo più oggettivo possibile e farle diventare un insegnamento per affrontare con più consapevolezza il presente.

La conoscenza di questa pagina della nostra storia deve essere uno stimolo di riflessione per comprendere da un lato ciò che di negativo il colonialismo ha comportato per chi l’ha subito e dall’altro comprendere come l’incontro pacifico e rispettoso di due culture può portare vantaggi a entrambe.

Questo non significa rivalutare l’occupazione italiana di Tianjin. Non significa negare le mire colonialiste italiane. Al contrario significa cercare di guardare alla storia con uno sguardo che sia il più possibile neutro. Guardare in modo neutro alla nostra storia ci permette di trarre un semplice ma fondamentale e prezioso insegnamento: cosa non vogliamo e cosa vogliamo essere.

ITALIANI "BRAVA GENTE"

Per noi italiani la Cina è dall’altra parte del mondo. La notevole distanza, un viaggio lungo e pericoloso da compiere per raggiungerla, non hanno mai scoraggiato in passato i nostri connazionali a raggiungere il Paese del dragone.

Marco Polo e Matteo Ricci sono forse fra i più famosi italiani che lo hanno raggiunto.

In tempi più recenti la presenza di missioni italiane in Cina è iniziata fin dalla fondazione del regno d’Italia. Ad esempio, la presenza di soldati italiani in Cina risale a subito dopo la costituzione del regno. Infatti, nel 1866, la corvetta Magenta della Regia Marina (protagonista di un prossimo articolo) fu inviata in Cina e in Giappone per stabilire le prime relazioni politiche ed economiche con quello che allora veniva chiamato il "Celeste Impero".

Corvetta Magenta - Spiralis Mirabilis Magazine - Arti marziali e cultura tradizionale cinese e alla cultura tradizionale cinese
La corvetta Magenta della Regia Marina Militare

Dopo la Magenta, nel 1869, fu la volta della nave Principessa Clotilde e poi, nel 1873, della Governolo e della Vedetta. Arrivò poi l’incrociatore Cristoforo Colombo che sostò in Cina dal gennaio 1884 al luglio 1885 e, quindi, la nave-avviso Rapido che vi rimase dal maggio 1886 al settembre 1887. Dopodiché, altre navi si avvicendarono in Cina, sempre con finalità di rappresentanza.

Incrociatore Colombo - Spiralis Mirabilis Magazine - Arti marziali e cultura tradizionale cinese e alla cultura tradizionale cinese
L'incrociatore Cristoforo Colombo della Regia Marina Militare

Verso la fine dell’Ottocento tutte le grandi potenze occidentali mandarono le loro flotte in giro per il mondo per "mostrare la bandiera" e intessere relazioni commerciali.

Così avvenne nei mari della Cina, che vide apparire all’orizzonte le navi di tutte le principali nazioni occidentali. Fino a quando la cosiddetta "Ribellione dei Boxers" (1900 - 1901) non determinò un significativo cambiamento che darà il là a una serie di eventi che porteranno fino alla presa del potere di 毛澤東 máo zédōng nel 1949.

L’obiettivo delle missioni navali dell’Italia era quello di ottenere una concessione territoriale in Cina.

Tutte le altre "grandi potenze" come l’Inghilterra, la Russia, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti, avevano già ottenuto una concessione (la maggior parte in contropartita del sostegno dato alla Cina nel 1895 in occasione del trattato di pace di Simonoseki che poneva fine alla guerra con il Giappone).

Nel 1898 l’incrociatore della Regia Marina Marco Polo, proseguendo le missioni affidate alle navi italiane, raggiunse le acque cinesi con l’incarico di esplorare la costa, individuare una zona adatta all’approdo e avviare trattative per procedere all’acquisto del territorio prescelto.

Dopo lunghe ricerche il capitano della Marco Polo alla fine giudicò idonea alla costituzione di una base la baia di 三門 sānmén.

La richiesta dell’Italia fu respinta dalle autorità cinesi, probabilmente a causa dell’assenza di una valida preparazione diplomatica degli italiani e, soprattutto, della mancanza di una adeguata forza militare in loco, capace di mettere la Cina di fronte al fatto compiuto con l’occupazione militare dell’area prescelta.

Allo scadere del secolo rimaneva pertanto ancora irrisolta per l’Italia l’esigenza di disporre di una propria base commerciale e diplomatica in Cina.

Nel 1900 la rivolta nazionalista e antioccidentale dei Boxer offrì all’Italia l’occasione di soddisfare le proprie ambizioni coloniali anche in Oriente.

Priva di una chiara linea strategica e divisa da conflitti personalistici, l’azione del Governo italiano in Cina era stata animata fino a quel momento dall’aspirazione di aprire un mercato orientale agli interessi e agli investimenti del capitalismo italiano, da un atteggiamento revanscista teso a rivendicare per l’Italia un ruolo centrale nella politica coloniale europea.

Il regno d’Italia doveva cancellare il disonore per la sconfitta ad Adua in Etiopia e l’imbarazzo per il rifiuto cinese alla richiesta di una concessione della baia di Sanmen.

Umiliata militarmente in Africa e diplomaticamente in Cina, la monarchia italiana aveva visto nella Ribellione dei Boxer l’occasione per ricostituire una rispettabilità coloniale.

Non c’era però più tempo. Anche le altre potenze occidentali che già avevano una concessione in Cina vedevano nella rivolta dei Boxer una straordinaria opportunità per ampliare ulteriormente i propri insediamenti, mentre le nazioni arrivate per ultime, come l’Italia, erano ancora alla ricerca di terreni da occupare e da ottenere in concessione che fossero liberi dalle altre nazioni occidentali.

Conosciuta anche come "Rivolta dei pugni giusti e armoniosi" (義和團運動 yìhétuán yùndòng) la rivolta scoppiò in Cina nel 1899 e si protrasse fino al 1901. Allo scoppio della rivolta, gli scontri dilagarono in brevissimo tempo, in particolare là dove erano presenti le legazioni straniere, cioè a Pechino e a Tianjin.

I boxer iniziarono le loro azioni nel nord della Cina, attaccando missioni cristiane e stranieri. Le loro azioni culminarono con l’assedio del quartiere delle legazioni a Pechino nel giugno 1900. Fu proprio in conseguenza delle richieste d’aiuto provenienti dalle legazioni straniere a Pechino che le principali potenze occidentali inviarono le loro navi a Tianjin, il cui porto era diventato la porta d’ingresso alla Cina delle potenze straniere.

Per affrontare la situazione le Nazioni occidentali costituirono un’alleanza, che la storia oggi ricorda come "Alleanza delle otto Nazioni" (in cinese chiamata 八國聯軍 bāguó liánjūn).

Il comando delle operazioni dell’alleanza fu assunto dall’ammiraglio inglese Edward Seymour.

L’arrivo dei primi rinforzi portò la forza degli alleati a contare 428 uomini a Pechino, mentre a Tianjin arrivò a 402 uomini. I due distaccamenti, inoltre, potevano contare su circa 950 uomini presenti nelle navi presenti nell’area.

Nel momento in cui le legazioni straniere furono attaccate nel giugno 1900, si trovavano nel porto di Tianjin solo due navi italiane, l’Elba e la Calabria. Dalle quali sbarcarono 40 marinai, con una riserva di ulteriori 20 uomini.

Solo due mesi prima il Governo italiano aveva disposto lo scioglimento della divisione navale dislocata in Cina. Divisione che era stata costituita subito dopo il rifiuto della Cina di riconoscere una concessione territoriale all’Italia.
In conseguenza di tale scioglimento erano tornate in patria la Carlo Alberto e la Liguria ed erano rimaste solo l’Elba e la Calabria.

In tutta fretta, quindi, costretto dagli sviluppi della situazione, il Governo italiano prese la decisione di costituire una nuova divisione oceanica, questa volta formata dalle navi Fieramosca, Stromboli, Vettor Pisani e Vesuvio.

Quando la situazione peggiorò l’ammiraglio Seymour decise di fare sbarcare dalle navi occidentali il resto degli uomini disponibili e di passare all’azione (dalla nave Elba sbarcarono i rimanenti 20 marinai che furono inviati a Tianjin).

Le nazioni europee inviarono ulteriori navi e uomini e il 10 giugno 1900 l’ammiraglio Seymour decise di mettersi in marcia verso Pechino al comando di una colonna di 1782 uomini.

Forte Dagu - Spiralis Mirabilis Magazine - Arti marziali e cultura tradizionale cinese e alla cultura tradizionale cinese
Il forte Dagu protagonista degli scontri fra l'esercito imperiale e le forze coloniali

Qualche giorno dopo, il 17 giugno, una forza alleata formata da 5 cannoniere di nazionalità russa, tedesca e francese sulle quali erano stati imbarcati anche 24 marinai italiani conquistò i "forti di Taku", in cinese noti come 大沽砲臺 dàgū pàotái, fortificazioni poste alla protezione del porto di Tianjin.

In risposta alla perdita dei "forti di Taku" i boxers attaccarono le legazioni che si trovavano nella parte europea della città di Tianjin. Fu in questa fase del conflitto che si verificò la morte del S.T.V. Ermanno Carlotto, il primo dei caduti italiani durante la rivolta dei boxer (in totale durante la rivolta morirono 64 soldati italiani).

Il 26 giugno 1900 l’ammiraglio Seymour, impossibilitato ad arrivare a Pechino a causa della grande superiorità numerica degli insorti, fece il suo rientro a Tianjin. Le notizie che arrivavano da Pechino erano sempre più drammatiche. Gli alleati decisero allora di intervenire. Fu costituito un contingente di truppe di terra e di mare, armato con 70 cannoni, ripartito su due colonne: una formata da giapponesi, inglesi e americani (circa 12.700 uomini) che doveva seguire la riva destra del fiume 海河 hǎihé e l’altra da russi, francesi, tedeschi e italiani (circa 5.000 uomini di cui 35 italiani), che doveva seguire la riva sinistra del fiume.

Il 14 agosto il contingente partito da Tianjin arrivò a contatto con il nemico sottoponendolo a cannoneggiamento. Si trattava della colonna formata da giapponesi, inglesi e americani in quanto quella formata da russi, tedeschi, francesi e italiani era stata costretta a ritornare a Tianjin dopo due soli giorni di marcia.

Dopo un assedio durato 55 giorni le truppe alleate fecero breccia nelle mura di Pechino arrivando nelle vicinanze del palazzo imperiale e costringendo l’imperatrice a scappare.

Il 28 agosto 1900, con un forte gesto simbolico, fu organizzata una grandiosa parata militare con la quale le truppe alleate varcarono la soglia della città proibita. Luogo "inviolato" per secoli e simbolo dell’impero.

Della divisione composta dalle navi italiane solo la nave Fieramosca arrivò in Cina in tempo utile per partecipare, con due compagnie, al trionfale ingresso degli alleati nella città proibita. Ancora una volta gli italiani erano in "ritardo".

Nonostante questo successo le forze occidentali non erano in grado di opporsi ai rivoltosi che dilagavano nel Paese.

C’era pertanto bisogno di inviare un consistente contingente di truppe di terra per ristabilire l’ordine. Nazioni come il Giappone e la Russia erano senz’altro avvantaggiate per la loro vicinanza geografica alla Cina e così pure la Francia e l’Inghilterra che potevano prelevare i necessari rinforzi dai territori coloniali in Indocina e in India. Anche gli Stati Uniti potevano avvalersi delle truppe già dislocate nelle Filippine.

Del tutto diversa, invece, la situazione delle altre nazioni europee operanti in Cina come la Germania e l’Italia che dovevano inviare le loro truppe dalla madre patria con trasporti marittimi che richiedevano un viaggio di circa sei settimane.

Il Governo italiano assieme alla divisione navale inviò un contingente composto da 83 ufficiali e 1882 uomini. L’imbarco fu effettuato a Napoli utilizzando tre piroscafi della Navigazione generale italiana: il Singapore; il Marco Minghetti e il Giava.

Gli scontri durarono per tutto l’anno 1900. Solo il 24 dicembre di quell’anno il corpo diplomatico degli alleati presentò le condizioni di pace alle autorità cinesi. Ci vollero ben nove mesi di discussioni prima di arrivare a un accordo definitivo firmato a Pechino il 7 settembre del 1901.

Con il Protocollo finale del 7 settembre, a seguito della repressione dei boxer da parte delle forze dell’Alleanza, l’Italia ottenne i privilegi di extraterritorialità nel quartiere delle Legazioni a Pechino e la concessione, in perpetuo, di una piccola zona (circa mezzo chilometro quadrato, 46 ettari, che aveva precedentemente occupato durante la rivolta dei Boxer) sulla riva sinistra del Haihe, a Tianjin, su cui sviluppare una base operativa. Dopo la sconfitta dell’impero austro-ungarico nella Prima Guerra mondiale l’Italia poté annettersi il territorio della concessione austriaca aumentandone così la superficie.

Il 1° dicembre del 1900 Giuseppe Salvago Raggi, ministro plenipotenziario a Pechino, aveva comunicato al decano del corpo diplomatico internazionale in Cina di volersi riservare il diritto di istituire un consolato italiano a Tianjin, annunciando la presentazione di una formale richiesta al Governo cinese affinché concedesse il terreno necessario per la creazione di una concessione.

Lungo il fiume Hai non rimanevano molti appezzamenti di terreno disponibili, tuttavia Mario Valli, comandante del contingente italiano, aveva individuato, su richiesta dello stesso Salvago Raggi, un’area idonea sulla riva sinistra, ricompresa tra la zona sotto il controllo russo e quello austriaco che formalmente risultava essere affidata alla giurisdizione del governo provvisorio. Per Salvago Raggi si trattava di un’occasione da non perdere. Un’occupazione provvisoria di carattere militare avrebbe avuto il vantaggio di evitare che su di esso si potesse rivolgere l’interesse di altre potenze e avrebbe permesso al governo, senza l’assunzione di un impegno formale, di valutare l’opportunità di creare un piccolo insediamento in grado di favorire gli interessi commerciali italiani. Dai documenti non risultavano insediamenti abitati rilevanti. Di conseguenza il valore commerciale della zona sarebbe potuto crescere grazie alla speculazione immobiliare.

La concessione divenne tale a partire dal 7 giugno 1902, l’occupazione dell’area da parte delle truppe italiane era già avvenuta nel gennaio del 1901 (diversamente dal 1899 l’Italia ora disponeva di una forza d’occupazione in Cina che poteva utilizzare per far pesare le proprie richieste).

Il Governo italiano si prendeva ciò che riteneva essere la giusta ricompensa per la sua partecipazione alla guerra.

L’11 marzo 1901 Salvago Raggi annunciava al nuovo ministro Prinetti che l’occupazione dell’area era avvenuta pacificamente e si rallegrava delle notizie che davano come imminente l’istituzione di un consolato italiano a Tianjin.

Il terreno occupato dagli italiani era malsano e fangoso, disseminato di acquitrini e saline, su cui sorgeva un villaggio di capanne di paglia e fango abitato da circa 16 mila cinesi. Inoltre, era presente un grande cimitero ed erano presenti depositi di sale di proprietà della compagnia cinese dei Mercanti del sale.

Innanzitutto, si sarebbe dovuto dare forma giuridica all’occupazione, stipulando un contratto con il governo cinese sul modello di quelli già siglati dalle altre potenze straniere e poi procedere con le espropriazioni e i lavori di bonifica. Un’operazione non affatto semplice.

Nel 1915, quando l’Italia entrò in guerra, la colonia di Tianjin contava circa 10.000 abitanti (cinesi) e 350 - 400 italiani, la maggior parte dei quali commercianti.

A quel tempo la difesa dell’insediamento era affidata a circa 200 soldati e ufficiali (per lo più bersaglieri) supportati da un battaglione speciale, composto da prigionieri di guerra austro-ungarici di origine italiana (chiamati >>irredenti italiani<<) catturati in Galizia dalle truppe imperiali russe e poi rilasciati e trasferiti in treno in Estremo Oriente per rinforzare la guarnigione italiana in Cina e da una cinquantina di miliziani cinesi. Pochi anni dopo, quando la guerra finì, il governo di Roma decise di rafforzare la guarnigione con una forza di intervento rapido.

L’area della concessione fu bonificata e trasformata in una cittadina dal tipico impianto coloniale, con 17 strade e 2 piazze, l’ospedale, la scuola italiana e cinese, una piccola cattedrale, il mercato coperto, una caserma, intitolata a Ermanno Carlotto (il militare medaglia d’oro al valor militare alla memoria, morto durante uno degli assalti dei boxer al quartiere occidentali di Tianjin), il consolato, un centro sportivo, il municipio, la centrale telefonica, oltre a un piccolo quartiere residenziale costituito da villette con giardino in stile eclettico anni Venti.

Nel 1925, per volontà di Mussolini, fu costituito un battaglione distaccato a Tianjin. Era un’unità composta per lo più da soldati dell’élite "Reggimento San Marco". Il battaglione fu acquartierato nella nuova caserma Carlotto ed era composto da tre compagnie di cento uomini ciascuna: la Compagnia San Marco, la Compagnia Libia e la Compagnia San Giorgio.

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L'interno della caserma Carlotto

Nel suo volume "La concessione italiana di Tien-Tsin" (edito nel 1921 da Barabino e Graeve) il console della concessione italiana a Tianjin Vincenzo Fileti scrive: "Oggi i capitali europei, americani e in gran parte la manodopera italiana, sono riusciti a costruirvi circa 3.500 miglia di ferrovie, una cifra molto piccola se si considera la superficie totale della Cina... Si tratta, quindi, di una vasta terra vergine per lo sfruttamento economico che può essere aperta all’attività umana, lo sforzo per superare le difficoltà è ben giustificato..."

Il 18 aprile 1928, la Compagnia San Marco fu ispezionata dall’ex imperatore cinese 愛新覺羅溥儀 ài xīn jué luó pǔyí (Pu Yi) durante la sua visita all’insediamento italiano. Gesto simbolico per mostrare i buoni rapporti fra il governo fantoccio Manciukuò (滿洲國 nǎnzhōu guó) istituito dai giapponesi e da lui presieduto con l’Italia di Mussolini.

All’inizio degli anni Trenta, la colonia italiana iniziò a stabilizzarsi. Tianjin e i quartieri italiani di 上海 shànghǎi e Pechino vissero un periodo abbastanza "sereno", caratterizzato da una discreta pianificazione urbanistica, commerciale e da una crescita imprenditoriale. Questo grazie a una situazione nella politica cinese di forte "instabilità".

Daniele Varè (1880-1956), uno dei diplomatici più importanti di allora, autore del fortunato libro di ricordi autobiografici “Il diplomatico sorridente”, fu designato nel 1927 a reggere la legazione italiana a Pechino perché profondo conoscitore della Cina dal momento che vi aveva trascorso ben otto anni a partire dal 1912 come segretario di legazione. Nel 27 trovò una situazione politica diversa da quella del suo primo soggiorno. Scrive: “mancava un governo cinese, o piuttosto ce n’erano tanti che non si sapeva a quale presentare le credenziali”.

Il collaboratore più diretto di Varè fu Galeazzo Ciano (genero di Mussolini), all’epoca ventiquattrenne, considerato data l’età e l’entusiasmo, un modello della nuova generazione di diplomatici italiani.

Galeazzo Ciano fu nominato segretario presso la legazione di Pechino e poi ministro plenipotenziario a Shanghai. La moglie di Ciano, Edda Mussolini, strinse una stretta amicizia con un esponente di spicco dell’élite militare dei nazionalisti cinesi 張學良 zhāng xuéliáng (1898 - 2001), noto come "il giovane maresciallo", un vero ammiratore del regime fascista di Mussolini.

Che Mussolini si fosse interessato da sempre della Cina è cosa nota. Era convinto che, a fronte del "decadimento economico e spirituale" della vecchia Europa, ci sarebbe stato uno spostamento dell’asse della civiltà che avrebbe attribuito al Pacifico un ruolo trainante.

Per quanto riguarda la Cina, il Duce redigendo nel 1928 una lunga prefazione per il libro di Riccardo Korherr "Regresso delle nascite: morte dei popoli" si chiedeva retoricamente con una punta di pessimismo “Che cosa può significare nella storia futura dell’Occidente una Cina di 400 milioni di uomini, accentrati in uno Stato unitario?”. E aggiungeva: “Le campane d’allarme squillano. Coloro che vedono un po’ più in là della quotidiana contingenza sono preoccupati”.

In quel momento stava maturando una >>svolta<<, quella del 1929, che avrebbe segnato con Dino Grandi al ministero degli Esteri l’avvio di una vera politica estera del fascismo che si proponeva di rafforzare a livello internazionale l’immagine della "Nuova Italia".

In questa ottica è comprensibile l’attenzione per la Cina. Dopo la rivolta dei boxer del 1900 e le turbolenze successive provocate dai "signori della guerra", col territorio riunificato in mano ai nazionalisti di 蔣介石 jiǎng jièshí (Chiang Kai-shek) e, dall’altra, col dinamismo del giovane Mao Zedong convinto dell’importanza delle campagne ai fini di un progetto rivoluzionario, la Cina appariva una "terra di opportunità".

Rispondevano a questa visione sia la scelta di un autorevole diplomatico come Varè, ancorato ai valori del mondo tradizionale e conservatore, sia quella dell’esuberante Ciano, esponente di una nuova generazione di diplomatici.

Si trattava di avere un quadro esatto per capire quale sarebbe stato il futuro di una Cina uscita da un lungo periodo di turbolenze politiche e non ancora stabilizzata malgrado il ruolo predominante di Chiang Kai-shek. Allo stesso tempo si trattava di curare gli interessi della piccola comunità italiana, sviluppare gli scambi commerciali italo-cinesi e creare le condizioni per inserire l’industria italiana nel mercato cinese. La collaborazione fra i due diplomatici italiani si rivelò fruttuosa e, dopo la partenza di Varè, si aprirono per Ciano, console generale a Shanghai, maggiori spazi di manovra.

L’impegno di Ciano, coadiuvato dalla moglie Edda, divenuta punto di riferimento dell’élite locale, fu intenso. Egli dovette muoversi sullo scivoloso terreno politico-diplomatico dove portò avanti un’equilibrata linea mediana sulla questione mancese e sulla creazione del Manciukuò.

Non minore attenzione dedicò alla ricerca di maggiori opportunità per la finanza, l’industria, il commercio in settori come quello della seta. La sua "passione" per la Cina non venne meno neppure quando, rientrato a Roma, passò ad altri incarichi: continuò a seguire le iniziative politico-economiche avviate in Cina e si adoperò per rafforzare la rappresentanza diplomatica italiana.

All’inizio degli anni Trenta si guardava con attenzione a Mussolini, Churchill non esitò a dichiarare la propria ammirazione e al regime. In Italia si discuteva di «fascismo universale» riponendo in solaio la tesi che sosteneva non essere il fascismo >>merce d’esportazione<<.

Nel 1932, subito dopo l’incidente di Mukden (il primo atto di chiara ostilità del Giappone contro la Cina), per dimostrare ancora una volta l’amicizia verso l’Italia Chiang Kai-shek scelse Ciano come tramite con il rappresentante giapponese. Lo stesso anno, su pressione di Ciano, per creare un’alleanza economica e militare ancora più forte tra Cina e Italia la compagnia di navigazione italiana Lloyd Triestino aprì un nuovo servizio che collegava l’Italia a Shanghai. Programmando su quella rotta due moderni transatlantici, il Conte Biancamano e il Conte Rosso (che stabilirono subito il record mondiale di velocità con soli 23 giorni di navigazione durante il loro primo viaggio). Con questo nuovo servizio, supportato da quelli di altre compagnie impegnate nel commercio di merci e prodotti vari, l’interscambio economico tra Italia e Cina raggiunse livelli così buoni da allarmare Gran Bretagna e Francia.

Fu in questo periodo che l’Italia, ad esempio, iniziò a fornire aerei militari a Pechino.

Dopo aver regalato a Chiang Kai-shek un trimotore Savoia Marchetti, Mussolini inviò in Cina un’ingente delegazione di piloti, ingegneri, tecnici e istruttori per convincere il governo di Nanchino e i giovani rappresentanti dell’aviazione cinese ad acquistare aerei militari italiani e ad accettare il sondaggio per la creazione di fabbriche per costruire modelli su licenza di Roma.

La delegazione aeronautica italiana, comandata dal generale Roberto Lordi e composta da assi e collaudatori di fama come Valentino Cus e Mario Bernardi (divenuto famoso grazie al record di velocità di 700 km/h stabilito dal suo speciale idrovolante Macchi) non riuscì nel suo intento.

Il Governo cinese decise di acquistare solo un piccolo numero di Fiat CR32 e alcuni bombardieri-ricognitori: Caproni Ca101, Ca111 e Ca133.

Il 6 novembre 1937, quando l’Italia aderì al Patto Anticominintern (patto sottoscritto nel 1936 da Germania e Giappone con l’obiettivo di opporsi al comunismo internazionale), i rapporti tra i due paesi cambiarono.

Mussolini, firmando quell’accordo, si avvicinò a Tokyo, aprendo una serie di buoni scambi con il potente Giappone, che nel frattempo era diventato il peggior nemico della debole Cina nazionalista.
Inutile sottolineare che Chiang Kai-shek non gradì affatto questa decisione e ruppe ogni rapporto con Roma.

La nuova situazione determinò l’immediato isolamento della colonia italiana di Tianjin e dei quartieri di Shanghai e Pechino.

I responsabili militari della colonia e i rappresentanti del Partito Nazionale Fascista (all’epoca in Cina il segretario del partito era Carlo Fumagalli) si resero presto conto della situazione pericolosa, considerate le insufficienti forze italiane poste a difesa della concessione e dei quartieri di Pechino e Shanghai.

Fu subito richiesto a Roma un urgente rinforzo di uomini e navi da guerra. Richiesta soddisfatta in tempi piuttosto rapidi, anche se in quantità esigua, ma non prima che scoppiasse la guerra tra Cina e Giappone.

Pochi mesi dopo, quando gli eserciti giapponesi ben addestrati e temprati dal combattimento si erano diffusi sul territorio cinese, il Comando Supremo italiano decise di inviare più forze (alcune centinaia di soldati) e l’incrociatore leggero Raimondo Montecuccoli a Tianjin. Questo incrociatore salpò da Napoli il 27 agosto e arrivò a Shanghai il 15 settembre, in coincidenza con il primo bombardamento aereo giapponese della città. A quel punto, almeno 1200 soldati dell’Esercito e della Marina erano in Cina per difendere la sicurezza e gli interessi italiani.

Durante un raid contro Shanghai alcuni bombardieri giapponesi attaccarono l’incrociatore leggero italiano Montecuccoli. L’incidente compromise gravemente i rapporti diplomatici tra Roma e Tokyo.

Incrociatore Colleoni - Spiralis Mirabilis Magazine - Arti marziali e cultura tradizionale cinese e alla cultura tradizionale cinese
L'incrociatore leggero Bartolomeo Colleoni a Taranto nel 1936

Il 23 dicembre l’incrociatore fu sostituito dalla sua nave gemella, l’incrociatore leggero Bartolomeo Colleoni, che rimase a difesa delle guarnigioni italiane in Cina fino al 5 settembre 1939, quando fu richiamato in Italia a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Nello stesso anno, parte del contingente fu rimpatriato, lasciando alla guarnigione parte dell’armamento e due piccole unità navali.

Il 10 giugno 1940, al momento della nostra entrata in guerra, la concessione era presidiata da 300 marinai del reggimento San Marco.

Il 27 settembre 1940, l’Italia firmò il cosiddetto "Patto Tripartito", che la unì in un’alleanza militare a Germania e Giappone.

I giapponesi, che dopo essere intervenuti nel conflitto avevano invaso il territorio internazionale della città di Tianjin, mantennero un occhio di riguardo nei confronti degli italiani: dopo tutto, si trattava di loro alleati. Gli uomini della San Marco, infatti, poterono conservare il diritto di risiedere nella loro caserma e di portare le armi.

Nel febbraio 1941 la nave coloniale Eritrea (armata con quattro cannoni da 120 mm, due da 40 mm e due mitragliatrici da 13,2 mm) e due imbarcazioni armate (Ramb 1 e Ramb 2: due moderne e veloci porta-banane trasformate in incrociatori ausiliari con l’equipaggiamento con quattro cannoni da 120 mm e alcune mitragliatrici antiaeree da 13,2 mm) salparono per Kobe (Giappone) e, in alternativa, per i porti di Shanghai e Tianjin.

Mentre l’Eritrea e la Ramb 2 giunsero a destinazione, evitando il pattugliamento della Royal Navy, la Ramb 1 incontrò l’incrociatore leggero neozelandese Leander al largo delle isole Maldive, dal quale fu affondata.

La concessione italiana di Tientsin e i consolati di Shanghai e Pechino vissero tra il marzo 1941 e il settembre 1943 un periodo abbastanza tranquillo, nonostante un rapporto non ottimale con il comando militare di occupazione giapponese.

Quest’ultimo, infatti, non gradiva la presenza di europei - anche se alleati - nel governo della città. Nonostante questo, gli addetti militari e i diplomatici italiani in Cina e Giappone cercarono di attenuare il più possibile i motivi di attrito, anche quando Tokyo proibì all’Eritrea e alla Ramb 2 di effettuare crociere offensive contro la flotta inglese nell’Oceano Pacifico (i giapponesi, almeno fino al 7 dicembre 1941 - data dell’inatteso attacco a Pearl Harbor - fecero il possibile per evitare qualsiasi imbarazzante situazione con USA e Gran Bretagna).

Solo dopo l’entrata ufficiale in guerra del Giappone, all’Eritrea fu consentito di dare supporto ai sommergibili oceanici italiani, carichi di prodotti strategici e merci destinate all’industria bellica giapponese.

La sovranità italiana a Tianjin fu formalmente rispettata fino all’8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio.

All’annuncio della resa italiana, le truppe nipponiche occuparono la concessione, circondarono la caserma e disarmarono la nostra guarnigione. I militari della San Marco che rifiutarono di collaborare furono spediti in un campo di concentramento in Corea. Viceversa, coloro che accettarono di scendere a patti con i giapponesi poterono restare nella caserma fino all’8 gennaio 1944. Poi ne vennero espulsi con la qualifica di civili non nemici.
Alla conclusione della guerra, gli italiani della concessione vennero fatti prigionieri dagli alleati.

Nel 1947 i quartieri commerciali di Tianjin e Pechino furono definitivamente soppressi con i trattati di Parigi e riassegnati alla Cina.

Ho aperto questo articolo con le parole di Giuseppe Messerotti Benvenuti. Sempre con le sue parole trovo corretto chiuderlo: "Si chiamano barbari i cinesi, perché farebbe comodo che fossero tali; invece, in molte e molte cose ci possono fare da maestri".

GLI IRREDENTI

Si trattava di militari di provenienti dal Trentino, dall’Alto Adige e dalla Venezia Giulia, ossia dalle province dell’ex impero austro-ungarico: soldati di truppa che, per evidenti ragioni di opportunità, furono spostati dalle loro zone di origine in cui avrebbero facilmente disertato.

Gli irredenti arruolati nel corpo di spedizione in Estremo Oriente raggiunsero alla fine un totale di 3000 uomini. Sbarcato in Manciuria il 17 ottobre 1918, al comando del tenente colonnello Edoardo Fassini Camossi, il contingente era composto da un battaglione di fanteria, da una sezione di carabinieri reali e da una sezione di artiglieria da montagna. Il corpo di spedizione fu di base a Tianjin.

GIUSEPPE MESSEROTTI

Giuseppe Messerotti Benvenuti (1870 - 1935) è stato un medico, Ufficiale della Sanità Militare, attivo nelle Campagna di Cina (1900/1901) e Libia (1911). Dilettante fotografo sin da giovanissimo, spesso con esiti di grande qualità, realizza durante la Campagna di Cina 400 scatti che documentano il viaggio, lo sbarco, le distruzioni di Tianjin, il viaggio verso Pechino. Qui è tra i primi ad entrare con la sua Kodak nella città proibita, fotografando, tra le cose minori, il letto dell’Imperatore e dell’Imperatrice madre, che paiono abbandonati da poche ore. Fotografa le decapitazioni e le altre pene, i monumenti, i palazzi, i commilitoni, la vita militare delle otto nazioni presenti in Cina. Messerotti si ammala, rischia la vita; si riprende, ma per il resto della sua esistenza soffrirà gli esiti del male contratto in Cina. Un catalogo in due volumi nel 2000 ha raccolto tutte le foto cinesi e altre, assieme alle lettere inviate alla famiglia, nel 1900/01: La vicenda cinese di Messerotti Benvenuti ha ispirato Fabio Fattore per il saggio "Gli italiani che invasero la Cina" edito da Sugarco nel 2008.

Robert Lee - Spiralis Mirabilis Magazine - Arti marziali e cultura tradizionale cinese e alla cultura tradizionale cinese
La rimozione della statua di Robert Lee

LA STATUA DI ROBERT LEE

Dopo la morte di George Floyd, il movimento "Black lives matter" ha fatto pressioni affinché alcune delle statue dedicate a schiavisti ed esponenti della confederazione fossero rimosse.

Fra le statue attenzione dal movimento ci fu quella del comandante delle truppe confederate Robert E. Lee a Richmond, in Virginia. Le proteste furono talmente intense che si dovette procedere alla sua rimozione. Dopo l’annuncio della rimozione divenne virale la foto di Ava Holloway e Kennedy George, due ballerine adolescenti della Central Virginia Dance Accademy, mentre ballano sulle punte sul monumento. Un esempio di “cancel culture” o un doveroso atto verso la storia?

NOTE BIBLIOGRAFICHE

1) "Montanelli non merita una statua" di Silvia Ballestra del 16.6.2020 – Internazionale
2) "Tianjin, glorie militari italiane nell’Oriente Estremo" di Roberto Festorazza del 07/08/2014 - Limes
3) "The encounter between Italy and China: two countries, multiple stories" di Maurizio Marinelli del 24/08/10 - Journal of Modern Italian Studies 15(4) 2010: 491 –501
4) "La colonia cinese: Le rappresentazioni culturali e letterarie della Concessione italiana di Tientsin nella letteratura e nella cultura italiana del Novecento" di Daniele Comberiati del 10/08/14 – Sage Journals
5) "La nuova Italia di Mussolini in Cina 1927-1934" di Ilaria Lasagni - Studium edizioni – 2019
6) "Il Diplomatico Sorridente (1900-1940)" di Daniele Varè – Mondadori – 1944
7) "Breve storia di una colonia italiana in Cina" di Luigi Nuzzo del 08/09/23 – Internazionale
8) "Cosa fare con le tracce scomode del nostro passato" di Igiaba Scego del 09/6/20 - Internazionale

Pratica la tua conoscenza.
實踐真知
shíjiàn zhēnzhī

Francesco Russo

NOTE SULLA TRASCRIZIONE FONETICA
Le parole in lingua cinese quando appaiono per la prima volta sono riportate in cinese tradizionale con la traslitterazione fonetica. A partire dalla seconda volta, la parola è riportata con il solo pinyin senza indicazioni degli accenti per favorire una maggiore fluidità della lettura dei testi.

BREVE PROFILO DELL'AUTORE
Francesco Russo, consulente di marketing, è specializzato in consulenze in materia di "economia della distrazione".

Nato e cresciuto a Venezia oggi vive in Riviera del Brenta. Ha praticato per molti anni kick boxing raggiungendo il grado di "cintura blu". Dopo delle brevi esperienze nel mondo del karate e del gong fu, ha iniziato a praticare Taiji Quan (太極拳tàijí quán).

Dopo alcuni anni di studio dello stile Yang (楊式yáng shì) ha scelto di studiare lo stile Chen (陳式chén shì).

Oggi studia, pratica e insegna il Taiji Quan stile Chen (陳式太極拳Chén shì tàijí quán), il Qi Gong (氣功Qì gōng) e il DaoYin (導引dǎoyǐn) nella propria scuola di arti marziali tradizionali cinesi Drago Azzurro.

Per comprendere meglio l'arte marziale del Taiji Quan (太極拳tàijí quán) si è dedicato allo studio della lingua cinese (mandarino tradizionale) e dell'arte della calligrafia.

Nel 2021 decide di dare vita alla rivista Spiralis Mirabilis, una rivista dedicata al Taiji Quan (太極拳tàijí quán), al Qi Gong (氣功Qì gōng) e alle arti marziali cinesi in generale, che fosse totalmente indipendente da qualsiasi scuola di arti marziali, con lo scopo di dare vita ad uno strumento di divulgazione della cultura delle arti marziali cinesi.

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